(Alessandra Cecchin, parziale dell’intervista rilasciatale dal dr. L.Colusso per “La Vita del Popolo” del 15 Marzo 2015)
“Quando avrà finito di scrivere, si fermi un momento e rilegga l’articolo, mettendosi nei panni di un genitore, di un fratello, di un famigliare di chi si è tolto la vita. E’ l’unico modo per non far loro ancora del male, anche solo con le parole”. La raccomandazione, fatta sottovoce e quasi scusandosi, del dott. Luigi Colusso, al termine del nostro incontro, dice molto del suo lavoro, e della sua stessa vita, accanto alle persone colpite da un lutto con il progetto “Rimanere insieme” che è nato 16 anni fa all’interno dell’Advar di Treviso come servizio gratuito rivolto ai “superstiti”.
La cronaca delle ultime settimane racconta di una lunga serie di casi di morti per suicidio nel trevigiano, in particolare di giovani. Scelte, se così si possono definire, che quasi sempre sembrano arrivare all’improvviso, senza che ci siano stati “segnali” di preallarme, senza che le persone vicine potessero fare qualcosa per scongiurare qualcosa di così definitivo, senza che fosse possibile “intercettare” un disagio tanto profondo, più o meno nascosto. Fatti di fronte ai quali ci si dovrebbe fermare come davanti a un mistero, insondabile, che tocca l’intimità di ciascuno. E invece, spesso, le parole si sprecano, anche sui mass media.
Accoglienza senza giudizio
Da qualche tempo il gruppo di “Rimanere insieme”, tra i“superstiti”, accoglie anche diversi famigliari di persone che si sono uccise,soprattutto genitori e partner (mogli, mariti, fidanzati).
“Un tempo erano uno ogni tanto, oggi cominciano ad essere parecchi – spiega Colusso - e arrivano con un tir di sofferenza, in cui ci sono anche molti sensi di colpa. Le identità stesse vengono travolte, c’è un crollo dell’autostima. Sono persone che hanno bisogno di ascolto, di essere accolte con misericordia, senza essere giudicate, hanno bisogno di fare una narrazione del proprio vissuto, e il gruppo di mutuo aiuto fra pari, fra persone che condividono la stessa esperienza è fondamentale.
E’ diverso perdere qualcuno per malattia o perché si è tolto la vita”.
Farcela con le proprie forze è dura, in questi casi, molti possono contare sulla fede, su un sostegno spirituale, in alcuni casi c’è la necessità di un aiuto professionale, di un sostegno psicologico per comprendere ciò che è accaduto, elaborare il lutto.
Coinvolti famiglia, amici,comunità
Colusso parla di ripercussioni ad onda di questi fatti in tutta la famiglia, tra gli amici, nella stessa comunità. “La percezione che ho ricavato da tante storie e incontri è che ci siano molte concause che portano le persone al suicidio, non c’è soltanto il lavoro perso, il fallimento dell’azienda, una malattia grave, la rottura di un legame affettivo o gli impegni di studio non onorati come si desidera.
Soprattutto c’è l’impressione, sbagliata certo, di non contare abbastanza per qualcuno, di non avere più un motivo per continuare a vivere, e non c’è la consapevolezza del dolore che si provocherà.
Talvolta la rete sociale intorno a queste persone, anche quella informale, funziona meno, è più «smagliata». Ecco perché ripeto sempre che dobbiamo rimettere al centro le relazioni e ricostruire il senso di comunità”.
Una rete dalle maglie strette
Costruire e coltivare relazioni come membri della comunità umana,quindi, la prima e più remota “ricetta” per prevenire gesti tanto terribili, per costruire quella rete dalle maglie strette che può aiutare anche la famiglia e la scuola, che spesso si sentono impreparate a cogliere i segnali, a interpretare il disagio di tanti adolescenti.
“Dobbiamo impegnarci a ricostruire la bellezza di vivere insieme nel mondo, che è il posto che Dio ci ha dato, perché non ci ha messo qui da soli, ma ci ha donato gli uni agli altri” conclude Colusso.